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Storia dei Mulini ad acqua, Scuola degli Annales e Marc Bloch

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Giada e Sara hanno sintetizzato per noi l'introduzione del testo a cura di Alberto Melelli e Fabio Fatichenti de "L'Umbria dei Mulini ad acqua", concentrandosi sulla sezione i "Mulini dell'eugubino gualdese" che permette l'inquadramento nella storia di "lungo periodo" di questi elementi architettonici rurali, testimonianza di una intera economia e modo di vita: "Il volume preso in esame è articolato in due parti: la prima di carattere introduttivo illustra le fonti e tratta dei mulini idraulici; la seconda ci porta nel contesto specifico delle strutture e dell'attività molitoria in Umbria." In base a questa divisione si sono occupate della prima parte denominata

"Tra visibile ed invisibile. I mulini ad acqua nel paesaggio rurale". Qua viene evidenziato come "il rapporto tra uomo e acqua si è concretizzato ovunque con segni di elementi sedimentati nel paesaggio  che oggi costituiscono una testimonianza visibile o invisibile di un interazione estremamente complessa.

Le acque condizionano da sempre la vita dell'uomo, sia in ambito industriale che agricolo.

Si può considerare l'Umbria come regione laboratorio in quanto inondazioni, impaludamento e la coltivazione di grano e olive, hanno portato all'intoduzione di innovazioni come, appunto, i mulini. 

Gli opifici idraulici hanno infatti rappresentato una componente tutt'alto che marginale del paesaggio; in particolare l'attività molitoria ha costituito uno dei più rilevanti capitoli della storia capace di restituirne uno spaccato di tecniche lavorative, stili di vita, abitudini e tradizioni. Il mulino ad acqua costituisce quindi una testimonianza storica e come tale deve essere tutelato, ci si interroga infatti, di fronte ai vecchi opifici oggi ridotti a ruderi, su quali azioni siano necessarie per conservare quel che resta. In Europa sono stati istituiti musei all'aperto realizzando così iniziative volte a garantirne la sopravvivenza ed agevolare la conoscenza dei mulini. In Italia, purtroppo, si è preferito abbatterli per costruirne di più funzionali. L'UE però ha stanziato dei fondi per il recupero delle strutture con finalità museali o per la realizzazione di specifici itinerari. A prescindere dal tipo d soluzione che si intende adottare è necessario in primo luogo l'intervento degli enti pubblici mirato alla conoscenza del loro stato di conservazione per impedirne la definitiva scomparsa. La Regione Umbria si è mossa in tale direzione con 2 provvedimenti normativi: 

  • la l.r. n. 31 del 21 ottobre 1997 la quale affida ai comuni il censimento degli immobili costituenti beni culturali.

  • l.r. n. 12 del 22 febbraio 2005 finalizzata alla promozione  di interventi per la salvaguardia, la conservazione, ripristino e la valorizzazione  dei storici mulini ad acqua.

  • Normativa  n. 226 del 12 marzo 2013 per la promozione del patrimonio regionale archeologico-industriale, testimonianza storica del lavoro e della cultura industriale del nostro paese. 

 

I mulini rappresentano perciò rappresentano oggi una sorta di passato visibile, ovvero una componente caratterizzante il paesaggio. Per altri aspetti però costituiscono un vero e proprio passato invisibile poiché molti opifici sono scomparsi o in totale degrado, ma tra i rimanenti molti sono ristrutturati e rifinalizzati, sopratutto per scopi lontani dall'attività molitoria. 

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Successivamente hanno analizzato la sezione denomitata "Gli impianti molitori e i loro protagonisti nel tempo" per la parte più storiografica che riguarda l'"Avvento e diffusione dei mulini ad acqua". A proposito di questa sezione riportano "Già in età medievale era diffuso in abbondanza l'utilizzo di opifici. 

La scoperta dell'agricoltura portò gradualmente con se la realizzazione di specifici arnesi per lavorare il terreno nonché strumenti per la macinazione dei grani per ottenere una grossolana farina. Ciò è legato all'invenzione della macina girevole, strumento rimasto immutato fino ai giorni nostri, l'evoluzione è legata sia a piccole modifiche tecniche (mirate a migliorare il rendimento), sia ad un progressivo miglioramento della qualità dell'energia motrice impiegata (umana, animale o idraulica). Questa subì ulteriori modifiche che portarono all'invenzione di altre tipologie: 

  • macina a sella 

  • macina a tramoggia 

  • rotatoria-manuale 

  • macina a clessidra 

  • ingranaggio per mulino idraulico.

Queste vennero portate avanti fino all'età romana imperiale, quando venne introdotto il mulino ad acqua corrente, essendo questa principale fonte di energia rinnovabile. Nonostante ciò non ci fu un abbandono delle macine mosse da uomini o animali. Probabilmente questo accadde anche per natura del sistema produttivo della società romana dove il sistema schiavistico non spinge verso la ricerca di metodi alternativi di forza lavoro. 

 Il mulino ad acqua corrente era formata da una ruota motrice orizzontale, a pale ocucchiai, con un albero verticale che attraversava la macina fissa inferiore e trasmetteva direttamente il moto alla macina superiore; il suo rendimento non poteva essere elevato poiché la macina girava lentamente ( il numero dei suoi giri era pari a quelli dell'albero).

 

Fu Vitruvio, nel I secolo a.C., ad escogitare il modo di sfruttare la corrente tramite il mulino verticale (mulino vitruviano). Continuò ad essere preferita la forza degli schiavi e degli animali fin quando, nel IV secolo, si diffuse il mulino mosso dall'energia dell'acqua. 

 

Slicher van Bath ci dice che i mulini ad acqua si diffusero molto lentamente nell'Europa occidentale. Successivamente si aggiunsero mulini per l'estrazione dell'olio delle olive, dalle noci e dai papaveri, per la preparazione di senape; dopo il XIII secolo anche per la fabbricazione della carta destinata a soppiantare la pergamena.  Spesso i mulini si trovavano in luoghi remoti, accanto ai torrenti, dove un brusco dislivello del terreno accelerava la corrente. Altre volte l'acqua era condotta artificialmente, creando così vivai pieni di pesci. Sulla costa rocciosa della Bretagna si provò persino ad usare il flusso alterno delle maree come forza motrice 

Il Basso Medioevo ci ha dato a disposizione fonti circa la localizzazione e la distribuzione di molti opifici. Dall' XI-XIII secolo, dopo guerre, invasioni, epidemie e il calo demografico dei secoli precedenti, si assistette alla più rapida e massiccia diffusione dei mulini ad acqua. Era vietato ai contadini possedere mulini propri, dovevano quindi servirsi del mulino del signore (banno).               Con l'avvento dei comuni il diritto di banno diventa così privativa, che obbliga la comunità cittadina a macinare presso i propri mulini e non altrove. Per quanto riguarda struttura ed elementi accessori dei mulini, gli statuti insistono sugli obblighi fiscali dei conduttori che possono macinare anche in assenza di un elenco (sine licentia offitialium).            

 

Con la trasformazione della struttura fondiaria i mulini divennero sempre più di pertinenza delle fattorie. Nel XVI secolo ogni villaggio possederà un mulino.  Alla fine del XVII secolo, vennero introdotte ruote idrauliche perfezionate costruite in ferro e dotate di pale ricurve. In Italia solo con la rivoluzione industriale si verificherà una notevole diffusione dei mulini ad acqua. A partire dalla seconda metà del XVIII le motrici a vapore andarono via via a soppiantare gli opifici. Da un lato, nasce e si sviluppa il mulino elettrico industriale; dall'altro, permangono, agli inizi del XX secolo, i tradizionali impianti di macinazione idraulica.

Nel 1880 la produzione di farina di diversa qualità e l'esigenza di effettuare scambi portò alla graduale scomparsa del sistema della bassa macinazione dei mulini, e all'introduzione del sistema ad alta macinazione dei laminati, dove il grano era triturato fra cilindri di ghisa. Inoltre i buratti vennero sostituiti dai plansichter, macchine con doppio movimento di oscillazione e rotazione, ed un sistema di veli che permettevano la cernita delle farine. Queste innovazioni vennero introdotte anche in risposta all' esigenza di fornire un  prodotto non soggetto a deterioramento. Dopo la seconda guerra mondiale si assisterà ad un diffuso abbandono del mulino a forza idraulica dovuto, in molti casi, dalla lontananza degli opifici dai centri abitati. Nei casi di non abbandono si cambiò fonte di energia, in quanto, passando all'elettricità, si poteva accrescere  il potenziale di macinazione. La fase che porterà alla definitiva scomparsa degli opifici risale tra il 1950 e il 1980. La vera ragione risiedeva nella mancata convenienza data dall'avvento della nuova società industrializzata. Inoltre c'era la questione delle norme igieniche, come la lavatura dei cereali. 

I nuovi mulini richiedevano investimenti ingenti sostenibili solo da grandi imprenditori. Il passaggio dal vecchio al nuovo sistema si rivelò per certi versi traumatico, in particolare, per i mezzadri: ai contadini non era permesso ritirare la farina del proprio grano, provocando, malumori e  diffidenza che a volte portavano i contadini a consegnare grano scadente e umidificato."

 

Le tecnologie e le scelte di mercato dunque hanno permesso il cambiamento con il passaggio diffuso alla cultura rurale e con nuovi mestieri come quello del "Mugnaio", decretando però successivamente un nuovo e radicale cambiamento con l'abbandono i buona parte dei Mulini.

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Dal punto di vista storiografico nella prefazione del testo  si richiama che ciò che ha reso possibile individuare la prospettiva di cambiamenti di lungo periodo all'interno della storia economica, il ruolo dei Mulini, dei nuovi mestieri, al tempo della grande trasformazione (sebbene lenta) dal medioevo fino a fine 1770 nelle campagne europee, è stato sicuramente il grande storico Lucien Febre e la scuola degli "Annales".

I "nuovi" mestieri : il Mugnaio

(a cura di Benedetta ed Erica)

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Strettamente connessa alle vicende del mulino è la figura del mugnaio, che divenne un artigiano qualificato, esperto di tecnica molitoria e di idraulica, ma anche tecnico riparatore e attento alla contabilità del mulino. Doveva intendersi di falegnameria, oltre ad essere un abile muratore e un contadino, a capo di una piccola impresa agricola. Un testo di riferimento è stato il famoso "Lavoro e tecnica nel medioevo" di March Bloch.


 

Il mugnaio per secoli ha alimentato l'immaginario popolare ed è stata fonte di ispirazione di una ricca letteratura. Si trattava di “un uomo certamente non malvagio, ma furbo; e per il fatto di trattare la materia prima dell'umano esistere in un mondo di poveri, poteva facilmente barare con le sue sottili astuzie”.

Oltre che dalla fama di ladro, la figura del mugnaio era poi preceduta da quella di fannullone. Infatti, il popolo che portava il grano al mulino non comprendeva il motivo per cui si dovesse pagare il mugnaio per un lavoro che in realtà egli non compiva. Il mugnaio, in fondo, agli occhi del popolo, non era come tutti gli altri artigiani, poiché si limitava a dirigere e controllare una macchina praticamente automotrice.

Il mugnaio beneficia di uno status decisamente fuori dalla norma: quasi sempre di umile estrazione, è sia tecnico e gestore di una preziosa attrezzatura, sia conoscitore di una pratica che gelosamente viene custodita e trasmessa di padre in figlio. In età feudale la condizione era considerata privilegiata: “ Pur facendo solitamente parte della massa dei servi, egli intrattiene un rapporto diretto con il signore. Solo lui infatti è responsabile di una attrezzatura delicata e di importanza capitale nell'approvvigionamento alimentare della comunità.

Gli statuti comunali contenevano regolarmente norme relative a questa figura e alla necessità che sapesse svolgere bene i propri compiti. A titolo d'esempio tra i tanti articoli da citare fa fede quanto riportato nello statuto cinquecentesco di Marsciano nel quale si legge che “ Dalla farina se fa del pane, membro principale ad la vita de l'homo, et molte volte per causa de li mugnaii del grano bono se fa trista farina et della trista farina el pane bono et per consequenza nocivo ad le persone che de quillo vivano...”

Il mugnaio, che con il suo mestiere provocava invidia fra chi svolgeva il lavoro dei campi, iniziò comunque ad essere generalmente inviso nell'epoca dei ricordati mulini bannali, strumento del potere signorili.

L'avversione si può far risalire al Medioevo, quando i mulini erano appannaggio delle signorie ecclesiastiche e laiche, “Le sole in grado non solo di poter affrontare le forti spese connesse alla costruzione del manofatto, ma anche di esercitare il diritto di disporre di un corso d' acqua”.

Là dove la città non esercitava il suo dominio, nacquero le bannalità anche per i mulini, espresse attraverso tre disposizioni principali: obbligo per ogni abitante nell'area di proprietà signorile, di macinare al mulino del signore; diritto esclusivo per il signore di costruire mulini; diritto esclusivo del mugnaio di “cacciare il grano” ( chiunque contravveniva a tale principio subiva come pena un'ammenda, se non la confisca dell'intero carico, animale da soma compreso). Fu soprattutto la terza disposizione a indispettire il popolo in quanto, oltre alla “ caccia del grano “, era prevista la corresponsione di una quota del macinato nella misura di 1/16.

In altre parole il mugnaio era alle dipendenze di qualcuno. Nell' eventuali condizioni di proprietario, poco fortuna ebbe dalla sua poiché a causa del regime irregolare dei corsi d'acqua riusciva a macinare solo per brevi periodi dell'anno. Il suo mestiere doveva allora necessariamente integrarsi con quello di contadino, di muratore, di falegname o altro. Il ciclo delle sue attività era quindi scandito sia dai ritmi di vita del mulino, sia da quelli concessi al lavoro dei campi, nel bosco, nei forni.

Egli oltre che a controllare il prodotto in entrata ( granaglie) e in uscita ( farina), si adoperava al mulino con interventi costanti: le mole, abbisognavano di ribattuta e aguzzatura. Era quindi lo stesso mugnaio a dedicarsi al periodico disarmo delle macine e al loro restauro.

Doveva poi intervenire, oltre scegliendo il luogo più adotto per la presa e il canale di adduzzione, per rimediare ai danni arrecati agli impianti per condizioni metereologiche avverse; d'estate doveva essere ripulita la “forma” da erbe e rovi; i locali del mulino erano soggetti ad allagamento durante le forti piogge..

egli manteneva inoltre in perfetta condizione le pale del ritrecine rispetto al punto di arrivo del getto dell'acqua, con l'attenzione ad una costante velocità della macina. Laddove le ruote erano in legno spettava al mugnaio intervenire con lavori di falegnameria per sostituire elementi o per costruire i cucchiai della ruota.


 

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Gli Annali di storia economica e sociale

(a cura di Benedetta ed Erica)

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Fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre, gli Annales illustrano, al di là di questo prestigioso patrimonio, la ricerca storica più innovativa. Sono anche il luogo privilegiato per il dialogo ragionato per le diverse scienze dell'uomo.

Nuove aree di ricerca e storia comparativa, apertura alle aree culturali e riflessioni epistemologiche, firme prestigiose e giovani storici definiscono lo spirito degli Annales.

Un ampio spazio è anche dedicato all'esame della produzione scientifica recente sotto forma di relazioni (200 all'anno) e analisi approfondite delle opere più importanti.

Annales è la rivista di storia in lingua francese più diffusa al mondo.

 

Corrente di pensiero e di attività storica (secondo alcuni una vera e propria “scuola”) nata dalla rivista fondata nel 1929 da Marc Bloch e L. Febvre, Annales d’histoire économique et sociale, divenuta nel 1946 dopo vari mutamenti di titolo “Annales. Economies. Sociétés. Civilisation” e dal 1994 “Annales. Histoire et sciences sociales”. 

La storia delle “Annales” si può dividere in tre periodi (1929-1944; 1945-1968; dal 1968 in poi). Nel 1929 esse si presentano come la rivista di una storiografia economica concepita in modo nuovo. Il fatto però che né Bloch né Febvre fossero a quella data degli storici dell’economia in senso stretto ci fa pensare che scegliessero strategicamente quel terreno come il più adatto per far valere un concetto nuovo della storiografia in generale: per la possibilità d’una cooperazione internazionale, per le maggiori opportunità editoriali (la rivista avrebbe potuto occuparsi del tempo presente e raggiungere un pubblico formato non solo da storici, ma anche da professionisti e imprenditori), ma soprattutto per la necessità d’un lavoro comune con le scienze sociali, dalla geografia alla statistica, dall’economia politica alla psicologia e alla sociologia.

 

La struttura della rivista, con la prevalenza delle recensioni critiche, richiama quella dell'”Année sociologique” di E. Durkheim, e si è ipotizzato che Bloch e Febvre volessero riprendere, a favore della storiografia, il disegno durkheimiano di un’egemonia della sociologia tra le scienze sociali, elaborato all’inizio del secolo proprio contro la storiografia. Nelle recensioni i direttori fanno valere l’esigenza d’una storiografia concreta, priva di condizionamenti schematici, una storia critica che pone problemi. Non veniva tracciata una linea precisa tra storia e non storia. Venivano discussi i fenomeni più distanti nello spazio e nel tempo: il primo fascicolo abbracciava quasi duemila anni di storia, con articoli sul prezzo del papiro nell’antico Egitto, sull’istruzione dei mercanti nel Medioevo, sull’economia tedesca del primo dopoguerra e sulla popolazione nell’Urss. Si trattavano anche avvenimenti contemporanei, e si svolgevano inchieste sulla crisi delle banche (1932-1934), sulla riforma agraria in Spagna (1933), sul nazismo (1937). Nello stesso tempo si promuovevano gli studi di storia regionale e locale (l’eredità di P. Vidal de la Blache), ma è in dubbio che l’ampliamento della nozione di storia si verificò con il porre problemi insoliti per la tradizione storiografica: questioni di storia rurale e stradale, di storia monetaria e dei prezzi, di popolazione e colonizzazione, di storia delle industrie, di archeologia agraria, di storia dei mestieri, della vita materiale, del libro e della tipografia; problemi di iconografia economica, di storia delle tecniche, del lavoro, dei trasporti, dei nomi di persona, delle poste, di archeologia botanica, di storia dell’alimentazione e delle famiglie, di geografia e storia delle fonti documentarie: il tutto affrontato con taglio sociale e su scala geografica mondiale.

 

La linea tra storia e non storia è tracciata dalla capacità di porre nuove domande alle fonti e di rispondere in modo scientifico. La scienza a cui pensano Bloch e Febvre è nello stesso tempo la sociologia dei durkheimiani, la ricerca geografica sul campo di Vidal, la psicologia storica di H. Berr, la comparazione linguistica di A. Meillet. Lo storico assume un compito creativo: «I documenti», scriveva Bloch nel 1929, «restano monotoni ed esangui fino al momento in cui il colpo di bacchetta dell’intuizione storica rende loro l’anima». Febvre avvertiva ancora più forte questo ruolo quasi magico dello storico, perché era sensibile, a differenza di Bloch, alla tradizione della «résurrection du passé» di Michelet. La distanza di temperamento e di formazione tra i due direttori aumentò progressivamente a partire dal 1936. Dopo la morte di Bloch (1944) si ebbe una prima svolta nella storia del movimento: Febvre e F. Braudel, abili politici accademici, portarono al successo il nuovo modello di storiografia, assicurandogli nel 1947 il sostegno di un’istituzione: la VI sezione dell’École Pratique. All’attenzione per lo spazio geografico, il milieu, che aveva ispirato l’inchiesta sui plans parcellaires, i lavori di storia rurale di Bloch, ma anche la tesi di Braudel sul Mediterraneo (1949), si sostituirono, soprattutto per opera di quest’ultimo, l’economia di lunga durata, l’analisi quantitativa delle fonti, il dialogo con la sociologia di G. Gurvitch, il marxismo di C.E. Labrousse, l’antropologia di Lévi-Strauss. Nelle prime “Annales” soggetto della storia erano gli uomini; con le “Annales” di Braudel prevalsero strutture e condizionamenti. Dopo il 1968 il movimento assunse una fisionomia policentrica difficile da disegnare. In generale si reagì al “determinismo” di Braudel con ricerche di storia della mentalità (P. Ariès, A. Dupront), di antropologia storica (J. Le Goff, G. Duby), di microstoria narrativa, con studi di storia sociale della cultura (M. Chartier) e ricerche sulla trasmissione delle immagini collettive del potere e del passato nazionale (M. Agulhon, P. Nora). Nell’attuale movimento delle Annales la serie dei problemi nuovi si è arricchita rispetto alle proposte di Bloch e Febvre, ma l’impronta del loro esprit si scorge ancora. L’analisi scientifica del movimento, benché esistano studi particolari, è ancora da fare. L’elemento comune a tutto il percorso è la pratica di una storiografia scientifica che adoperi i metodi delle scienze sociali. Rispetto alla Histoire de France di E. Lavisse è questa la novità, e rispetto alle forme contemporanee di storiografia scientifica (per esempio tedesche) è questa l’originalità specifica. Nel movimento si riflettono però anche temi largamente europei, come quello del “genio” dello storico che dà vita ai documenti (si pensi al neokantismo o a Croce), e si ritrovano motivi della tradizione romantica francese, col suo gusto per la narrazione, che contrasta con l’analisi della storia-scienza, e s’avvicina all’antico concetto dell’arte storica e al senso storicistico dell’individualità. Il risultato concreto del movimento delle Annales è tuttavia l’invenzione di problemi storici nuovi, per mezzo d’una combinazione, unica del nostro secolo, di personalità creative, monografie classiche, lavoro collettivo e istituzioni di ricerca. Del contenuto delle “Annales” esistono tre indici bibliografici completi.

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