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Lavoro: da Locke alla delocalizzazione, passando per Smith, Ricardo e Marx

(a cura di Luigi e "La Fecchi")

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Uno fra i primi filosofi a teorizzare l'importanza del “lavoro” fu Locke, padre del liberalismo classico, il quale lo definì come garante della “proprietà privata”, poiché, secondo il filosofo inglese, una cosa diventa “nostra” soltanto quando facciamo del lavoro per renderla tale, tipo cogliere una ghianda.

Dopo di lui, i fisiocratici collegarono il lavoro all'economia, e più precisamente all'agricoltura, intesa come unico tipo di attività capitalistica, in quanto l'unica che produce surplus, dettato dall'agricoltura.

Colui che critica i fisiocratici è Adam Smith, che estende tale concetto anche alla produzione industriale, riconoscendo come valore di una merce (che per Smith è quasi equiparabile al suo prezzo), il lavoro impiegato per produrla. Così facendo, trova una differenza qualitativa notevole tra “lavoro comandato” (che è quello che ordina il capitalista) e quello “contenuto” (che è quello che svolge l'operaio): il primo è di gran lunga inferiore al secondo, e Smith riconosce che sia questa la causa del surplus, anche se non riesce a spiegarsi i motivi. Tentando di dare una definizione di lavoro, Smith ricorre ad un valore monetario, in quanto per lui il lavoro svolto da un operaio corrisponde al suo salario.

David Ricardo, considerato insieme a Smith uno dei più grandi esponenti dell'economismo classico, riprende in parte e critica il suo collega. Per Ricardo, il lavoro corrisponde al tempo impiegato per produrre una merce. Tuttavia, contrariamente a Smith, non riconosce l'esistenza del surplus in ambiti al di fuori dell'agricoltura. È proprio su questo ambito che si sofferma l'economista, riconoscendo i limiti dell'economia agricola, dettati dall'aumento della popolazione, e quindi dall'aumento dei costi di investimento su terre meno fertili, che porteranno ad una diminuzione dei profitti dei proprietari. È inoltre il primo a riconoscere l'esistenza di conflitti tra le classi dettati dalla disparità economica.

Il “punto di arrivo” di questo pensiero, è Karl Marx, che riprende e critica entrambi, rivoluzionando letteralmente l'ambito in questione con la sua teoria del plus-valore, espressa ne “Il Capitale”, scritto a quattro mani con Friedrich Engels.

Riprendendo la definizione di lavoro da Ricardo, Marx ne critica invece il non aver riconosciuto l'esistenza del surplus, che invece riprende ed amplia da Smith. Per prima cosa, formula una distinzione netta tra il prezzo di una merce ed il suo valore, che dipende dal lavoro impiegato. Modifica inoltre il concetto di “lavoro”, con quello di “merce-lavoro”, molto più applicabile all'economia capitalistica. Come ogni merce, esso ha un valore d'uso ed un valore di scambio. Il valore di scambio corrisponde al salario che viene offerto dal capitalista all'operaio, che mette a disposizione del primo la sua merce-lavoro. Il valore d'uso è invece il “lavoro puro”, che l'operaio esplicita lavorando.

Il surplus, ovvero la differenza individuata da Smith, viene quindi fatta ricondurre da Marx a questi due valori. Mentre il salario pareggia il valore di scambio della merce-lavoro, il valore di una merce è invece dato dal lavoro completo dell'operaio, quindi incluso il tempo in cui esplicita il valore d'uso della sua merce. Questo surplus viene chiamato da Marx “pluslavoro”, letteralmente “lavoro in più”, conosciuto anche come “tempo di lavoro soverchio”. Da questo surplus vengono poi detratti i costi del capitale costante, ovvero dei mezzi di produzione e quello che rimane è il “plusvalore”, ovvero il profitto del capitalista.

Tuttavia, il capitale costante, a causa della competizione fra capitalisti e dello sviluppo tecnologico, è in continuo aumento, ed il capitale variabile (ovvero i salari), non può essere ridotto oltre al limite di sopravvivenza, per cui si assiste ad una “tendenziale caduta del saggio di profitto”, ovvero ad una diminuzione inevitabile del profitto del capitalista.

Questo “tallone d'Achille” è presente ancora oggi, anche se esistono numerosi metodi per ritardarlo. Primo fra tutti è la meccanicizzazione dell'industria che sì, prevede degli elevati costi di investimento, ma va a diminuire notevolmente il numero di operai impiegati. Nonostante ciò, la conseguenza più visibile di questa “caduta” è la delocalizzazione, ovvero lo spostamento dell'industria in un paese meno sviluppato, con una manodopera a basso costo. Questa momentaneamente è un'ottima soluzione per coloro che non riescono a sostenere i costi di un investimento nella produzione (si prenda ad esempio la Fiat, che ha rischiato la Bancarotta) ma tuttavia anche questa ha un limite: delocalizzando, un'azienda compromette il suo mercato, poiché ci saranno meno dipendenti salariati che acquisteranno i suoi prodotti. Quindi, il profitto del capitalista in futuro tornerà a scendere.

Salvataggio in extremis di un'industria, di una multinazionale, è il mondo della finanza che, basato sulle speculazioni, si distacca dall'andamento reale del mercato. Tuttavia, si vengono a creare così delle bolle speculative, ovvero senza alcun valore, che prima o poi “scoppieranno”, mandando in crisi il mercato, come già successo nel 2008.

La “Caduta del saggio di profitto” è quindi inevitabile, e la nostra economia necessita di un cambiamento, per ovviare a questa realtà.

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Miscellanea di testi:



Adam Smith

Smith, per quanto riguarda il prezzo della merce sul mercato fa una metafora con la “Gravitazione”:

Il prezzo naturale è dunque in un certo senso il prezzo centrale, attorno al quale i prezzi di tutte le merci gravitano in continuazione […] Ma benché in tal modo il prezzo di mercato di ogni singola merce graviti continuamente, se così si può dire, verso il prezzo naturale, pure a volte particolari accidenti, a volte cause naturali e a volte particolari regolamenti di polizia possono mantenere, per molte merci e per un lungo periodo di tempo, il prezzo di mercato molto al di sopra del prezzo naturale”.

Fonte:  Alessandro Roncaglia – Breve storia del pensiero economico (Pag. 76-78)

John Locke

Nei Two Treatises of Government (1690) Locke propone la concezione della proprietà privata come diritto naturale dell'uomo. Questa tesi si oppone alle idee di Hobbes secondo il quale la proprietà privata avrebbe una natura convenzionale, un accordo tra Stato e Cittadino.
Locke riconosce che la terra e tutte le creature inferiori sono state date in comune a tutti gli uomini. Tuttavia “ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessun altro che lui. […]
Il lavoro del suo corpo e l'opera delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi”. Se ognuno è proprietario della propria persona e del proprio lavoro, ciascuno è anche proprietario dei beni materiali che ha prodotto, “in quanto vi aggiunge qualcosa di più di quel che ha fatto la natura, madre comune di tutti”.
Locke al lavoro include ogni tipo di attività produttiva – quella dell'imprenditore come quella del lavoratore salariato. Analogamente, il suo concetto di proprietà include non solo quella “privata” ma anche i diritti fondamentali dell'individuo. Locke difende i diritti dell'individuo di fronte al Governo.

Fonte: Alessandro Roncaglia – Breve storia del pensiero economico (Pag. 45-46)

John Locke

"Sebbene la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, pure ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessuno altro che lui. Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi. A tutte quelle cose dunque che egli trae dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha congiunto il proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio, e con ciò le rende proprietà sua. Poiché son rimosse da lui dallo stato comune in cui la natura le ha poste, esse, mediante il suo lavoro, hanno, connesso con sé, qualcosa che esclude il diritto comune di altri. Infatti, poiché questo lavoro è proprietà incontestabile del lavoratore, nessun altro che lui può avere diritto a ciò ch’è stato aggiunto mediante esso, almeno quando siano lasciate in comune per gli altri cose sufficienti e altrettanto buone.

Chi si nutre delle ghiande ch’egli coglie sotto una quercia o delle mele che raccoglie dagli alberi di una foresta, certamente se le è appropriate. Nessuno può negare che questo cibo sia suo. Domando allora: quando hanno cominciato ad essere sue? quando le ha digerite o quando le mangia? o quando le ha cotte? o quando le ha portate a casa? o quando le ha colte? È chiaro che se non è il primo atto di raccoglierle quello che le rende sue, nessun altro atto lo potrebbe. È quel lavoro che ha posto una differenza tra quei frutti e quelli comuni, in quanto vi ha aggiunto qualcosa di più di quel che ha fatto la natura, madre comune di tutti, e così essi diventano suo diritto privato. Si dirà forse ch’egli non aveva diritto alle ghiande o alle mele che si è appropriate in quel modo, per il fatto che non aveva il consenso di tutti gli uomini a farle sue? Era forse un furto prender a quel modo per sé ciò che spettava a tutti in comune? Se fosse stato necessario un consenso del genere, sarebbe morto di fame, non ostante l’abbondanza che Dio gli ha dato.

Vediamo che nelle comunità che permangono tali per contratto è il prendere una parte di ciò ch’è comune e il rimuoverla dallo stato in cui la natura la lascia, ciò che dà origine alla proprietà, senza di che il possesso comune sarebbe inservibile. E il prendere questa o quella parte non dipende dal consenso esplicito di tutti i membri della comunità: così l’erba che il mio cavallo ha mangiato, le zolle che il mio servo ha tagliato, il minerale ch’io ho scavato in un luogo in cui io vi ho diritto in comune con altri, diventano mia proprietà senza l’assegnazione o il consenso di alcuno. È il lavoro che è stato mio, cioè a dire il rimuovere quelle cose dallo stato comune, in cui esse si trovano, quello che ha determinato la mia proprietà su esse.
".

John Locke, Due trattati sul governo, II, parr. 27-28, pp. 249-50

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